Qui, nella campagna romana, tra le mozze, allegre case arabe e i tuguri, la quotidiana voce della rondine non cala, dal cielo alla contrada umana, a stordirla d'animale festa. Forse perché già troppo piena d'umana festa: né mai mesta essa è abbastanza per la fresca voce d'una tristezza serena. Cupa è qui la tristezza, come è leggera la gioia: non ha che atti estremi, confusione, la violenza: è aridità il suo ardore. Invece è la pa**ione mite, virile, che rischiara il mondo in una luce senza impurezze, che al mondo dà le care civili piazzette, dove ignare rondini scatena l'innocenza. Borghi del settentrione, dove dal ragazzo con fierezza e allegra umiltà nasce il giovane, e vive la sua giovinezza da vero adulto, benché piova il suo occhio chiaro e la sua bionda testa luce infantile: ma è quell'infanzia solo gioconda onestà: egli nella sua fonda vita il mondo matura con sé. Perciò possono ancora le rondini cantarlo, gettandosi lievi nelle piazzette dei girotondi, dei canti puerili, dove le nevi si dissolvono in biancospini, più pure, e questi si mutano per la dolce foga della semenza in rose, in gigli: ché confini le stagioni non v'hanno, né incrina nuova esistenza l'esistenza.