Apicio e le sue ricette Una testimonianza preziosa delle follie culinarie dei romani è rappresentata dal “De re coquinaria” (l'arte culinaria), opera che in dieci libri svela moltissime ricette d'età imperiale. Attribuita a Marco Gavio Apicio (I secolo a.C.) uno dei più grandi buongustai di tutta la storia romana, il de re coquinaria è in realtà il risultato di un “collage” operato da autori successivi, probabilmente del III o IV secolo d.C. Nei primi libri, oltre ad una serie di consigli pratici (ad esempio sulla conservazione dei cibi) questo ricettario contiene pietanze soprattutto a base di verdure e legumi, formaggi, olive e altri piatti tutto sommato semplici. Quando invece vengono illustrate le ricette di carne si arriva ad eccessi a dir poco strambi. Volatili come gru, pappagalli, pavoni e fenicotteri venivano cucinati arrosto, insaporiti da ricercate salse; altre carni, come quelle di cervo, lepre, capretto o maiale, erano cotte più volte, prima nell'acqua, poi nel latte, nell'olio e infine in qualche salsa speziata. Per non parlare del fegato d'oca, dei calli di cammello o dell'utero di scrofa ripieno di ghiri farciti, che i romani consideravano il ma**imo della prelibatezza. Oltre alle carni, il de re coquinaria da anche indicazioni su come condire pesci, molluschi e frutti di mare, altri piatti molto comuni nelle tavole dei ricchi.
Insomma, le cene di Apicio, rimaste leggendarie, dovettero essere un miscuglio di sapori diversissimi, ma non molto “semplici” da digerire. Plinio il Vecchio (I sec. a.C.), quando diceva che il cibo migliore è anche quello meno elaborato, doveva sicuramente avere in mente le abbuffate e le conseguenti indigestioni dei suoi contemporanei. Gusti forti Come abbiamo accennato, i romani amavano oltremisura le spezie, come lo zenzero, il pepe, lo zafferano. Più che condire, queste ricoprivano letteralmente le pietanze, fino a fargli perdere l'originario sapore. Un altro esempio della diversità del loro palato rispetto al nostro è il debole dei romani per il “garum”, una salsa fatta di interiora di acciughe o sgombri sotto sale, essiccate per molti giorni e all'occorrenza speziate, che doveva avere un sapore fortissimo e un odore alquanto putrido. Ne esistevano vari tipi e i romani (di qualunque ceto sociale) ne erano talmente ghiotti da consumarne grandissime quantità, come fanno oggi gli americani con il ketchup o la mostarda.